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Traduttore traditore
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Traduttore traditore

Un mese, un libro. La recensione di Alberto Mingardi.

Mentre stava lavorando con Adolfo Bioy Casares al Libro del cielo e dell’inferno

Borges trovò un breve testo nel Dizionario dell’Islam di Thomas P. Hughes (1886). Narrava di un arabo che, incontrando il Profeta, gli aveva chiesto se in Paradiso ci fossero i cavalli. Il Profeta gli aveva risposto che, certo, in Paradiso c’erano i cavalli, avevano le ali e ti portavano dove volevi. Il testo di Hughes finisce qui. Borges e Bioy tradussero quel passo e inventarono la conclusione: «L’uomo rispose: i cavalli che mi piacciono non hanno le ali».

In queste sue “note sull’arte della traduzione”, Alberto Manguel difende spesso, col sorriso sulle labbra, l’idea che la traduzione buona sia quella che aggiunge qualcosa: “le cattive traduzioni mostrano tutto, dando l’impressione di essere spurie; le buone traduzioni sono più riservate e contano sull’intuizione creativa di saper leggere tra le righe”. Se Goethe “che da un lato accusa il traduttore di essere un contraffattore”, dall’altro sostiene che “una buona traduzione può essere, non più la copia buona o cattiva di un testo, buono o cattivo, ma un’opera d’arte con meriti estetici e letterari pari all’originale”. Dal momento che, come osservava Madame de Staël (la quale, stranamente, non figura nello zibaldone di Manguel), “non è verisimile che per tremila anni l’ingegno d’Omero sia rimasto superiore a tutti gli altri poeti”, magari le traduzioni che si sono sedimentate negli anni qualcosa hanno aggiunto davvero.

Manguel, che ha letto per Borges (nel senso: a voce alta, le pagine di cui Borges sentiva il bisogno, quando aveva perso del tutto la vista), impara prima l’inglese (il padre è ambasciatore a Tel Aviv) e lo spagnolo solo più tardi, nel momento in cui la famiglia rientra in Argentina. L’atto del tradurre precede, nella sua biografia, l’attività del tradurre. La quale fa invece parte del suo percorso intellettuale, è uno dei modi in cui ha esercitato la vocazione di scrittore, potremmo dire che è uno dei generi con cui si è confrontato. Perciò gli è riuscito un libro come questo, una collezione di pensieri sulla traduzione, perlopiù in forma aforistica, serenamente slegati l’uno dall’altro, ogni tanto persino in contraddizione, sempre suggestivi.

Ne cito tre.

Primo. Sempre de Staël osservava che

se alcuno intenda compiutamente le favelle straniere, e ciò nonostante prenda a leggere nella propria lingua una buona traduzione, sentirà un piacere per così dire più domestico ed intimo provenirgli da que’ nuovi colori, da que’ modi insoliti, che lo stil nazionale acquista appropriandosi quelle forestiere bellezze.

Manguel sostiene qualcosa di simile.

Nel Medioevo, la parola traslatio indicava lo spostamento delle reliquie di un santo da un luogo a un altro (…) La traslatio di resti sacri era talora considerata un furtum sacrum: l'atto di sottrarre reliquie per il bene della propria comunità . E’ risaputo che nell’anno 828 d.C. le spoglie di San Marco furono trafugate da Alessandria d’Egitto per essere trasportate a Venezia, nascoste sotto un carico di maiali, che i doganieri musulmani si rifiutarono di toccare. Fu così che Venezia venne arricchita.

Ciò che interessa a Manguel è suggerire, fra il serio e il faceto, che “i traduttori, come ladri, si appropriano di quel che non è loro per arricchire la propria patria linguistica. Un atto di pirateria in nome del patriottismo”. Non a caso, però, li paragona ai ladri di reliquie (al suo, potremmo aggiungere un esempio “milanese”): gente che sa quel che sta sgraffignando e ne ha in mente un uso cerimoniale.

E’ vero che la traduzione può essere, anche nei suoi aspetti più creativi, un atto politico: furto, imitazione, omaggio, ma anche censura. “Secondo Boswell, Alcibiade, l’affascinante compagno di Socrate, veniva occasionalmente presentato nella letteratura medievale come una donna" ma anche “Robert Graves, alle prese con Svetonio, aggiunse nella versione inglese una frase che non esisteva nell’originale, per suggerire che il diritto romano proibiva le pratiche omosessuali”. In altri tempi, la traduzione poteva diventare terreno di battaglia legale: pare che il giovane Edward Coke avesse fatto furore nella sua prima causa smascherando un errore di traduzione della controparte, che citava lo Scandalum Magnatum (lo statuto medievale che doveva preservare l’onore dei pari d’Inghilterra) non in latino ma una traduzione inglese di una traduzione francese che Coke dimostrò essere traditrice.

Su un piano più generale, negli appunti di Manguel prevale l’idea che essa sia un elemento di arricchimento, un modo nel quale le tradizioni linguistiche e culturali, che non sono scolpite nel marmo, accomodano nuove idee e suggestioni.

Essendo testimoni del cambiamento, la nostra posizione è ambigua. Se da un lato piangiamo la scomparsa delle cose, siamo addolorati nel vederle invecchiare e ridursi in polvere, soffriamo quando un testo letto da bambini si dissolve nelle nebbie della nostra labile memoria, dall’altro ci rallegriamo per la novità di ogni cambiamento, per lo sciogliersi della neve, per le nuove gemme che spuntano dalle foglie, per la recente traduzione di quell’amato classico che ricordiamo appena.

La professione del traduttore, per quanta creatività possa mettere nel suo lavoro, è diversa da quello dello scrittore. “Gli scrittori scrivono (o quanto meno ci provano) per ogni epoca; i traduttori, più modestamente, per la propria generazione”. Ci rallegriamo per una nuova traduzione dell’Iliade, anche se ricordiamo che Madame de Staël riteneva che in Europa non ci fosse traduzione omerica che valesse quella di Vincenzo Monti. Però le lingue cambiano e i traduttori, adattandone le parole, sono i complici dei sogni d’immortalità degli scrittori.

Per questo (secondo punto) la traduzione è anche un esercizio ossessivo, la risposta a un bisogno di ordine.

Le esperienze del mondo in cui viviamo ci vengono incontro senza un sistema riconoscibile né una ragione intellegibile, con generosità cieca e spensierata. Eppure, a dispetto di ogni prova contraria, crediamo nella legge e nell’ordine. Archiviamo tutto ansiosamente in schedari, sezioni e scomparti distinti; distribuiamo, classifichiamo ed etichettiamo ogni cosa febbrilmente. Sappiamo che quel che chiamiamo universo non ha un inizio sensato né una fine comprensibile, non ha uno scopo ravvisabile né un metodo nella sua pazzia. Ma noi insistiamo: deve avere un senso, deve significare qualcosa. Perciò diamo un nome alle cose nelle lingue che parliamo, perché queste stesse cose abbiano coerenza e significato.

Dio impone all’umanità di una sorta di dovere di traduzione: “condusse all’uomo tutte le creature e gli chiese di tradurle in parole”. Parlare e tradurre (come ricordava anche Sergio Belardinelli in un bel libro di qualche anno fa) sono parenti stretti, ogni forma di comunicazione ha un aspetto traduttivo, è un modo per provare a trasporre qualcosa di proprio in una lingua che l’altro possa intercettare. L’arte della traduzione ci ricorda anzitutto che non esiste una “lettura corretta”, che “Balzac letto da Freud non è Balzac letto da Marx” e quel che vale per loro a maggiore ragione vale per noi, intendersi, anche sulle medesime cose, è sempre un esercizio di mediazione.

A un certo punto però il Dio della Bibbia contraddice, almeno in apparenza, il suo stesso comando di dare un nome alle cose. La storia è nota. Quando gli uomini, “usando il mattone come pietra e il bitume per cemento”, si costruiscono “una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo” per esorcizzare la memoria del diluvio, il Signore vedendoli al lavoro disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro”. E li disperde, dando vita a quella frammentazione, delle comunità e delle lingue, che poi diventa lo stato “normale” della razza umana sul pianeta. L’episodio biblico si presta a interpretazioni diverse. Michael Oakeshott, in un saggio il cui incipit è di sorprendente bellezza (“una storia come si deve è come un fiume: qualche volta ne si può rintracciare la sorgente fra le colline, ma ciò che diventa riflette il paesaggio per il quale passa”), sostenne che quella di Babele era la massima hybrisein Volk, ein Reich, eine Sprache, la ricerca della perfezione senza compromessi in una sorta di nostalgia per il paradiso perduto.

Manguel vede nell’abbattimento della torre “il provvedimento divino per intralciare il nostro progresso”, quel progresso che veniva proprio dal parlare una sola lingua, dal capirsi immediatamente e pertanto riuscire a lavorare assieme. “La maledizione divina consisteva nel disgregare l’immaginazione, nell’impedire la tessitura di un pensiero comune; la traduzione ricompone i pezzi della lingua andata in frantumi, perché il confronto tra le lingue non sia una contrapposizione ma un rispecchiamento reciproco.

Babele, secondo il Libro della Genesi, è un calembour sulla parola ebraica balal, «confondere». Quindi il nostro mondo sarebbe fatto di parole nate dalla confusione, e non c’è da meravigliarsi se ad ogni lingua, frammentata com’è, manchi la forza di nominare le cose del mondo in tutto il loro splendore. Ma noi continuiamo a provarci.

Alberto Manguel, Il rovescio dell'arazzo. Note sull'arte della traduzione, Palermo, Sellerio, 2024, pp. 168.

Una prima versione di questa recensione è apparsa anche su albertomingardi.substack.com

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