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Il filosofo double-face
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Il filosofo double-face

Un mese, un libro. La recensione di Alberto Mingardi.

“Do I contradict myself?/ Very well then I contradict myself,/ (I am large, I contain multitudes)” scrive Walt Whitman nella Song of Myself. Quell’I contain multitudes è tornato buono a Bob Dylan per una bella canzone uscita ai tempi del Covid (“I'm a man of contradictions, I'm a man of many moods/ I contain multitudes”). In questo saggio agile ma denso, peraltro scritto con una prosa avvolgente, più letteraria che accademica, Gaetano Pecora non si limita a constatare come “contenesse moltitudini” anche Bertrand Russell. Dimostra come Russell oscilli per tutta la vita fra pensieri inconciliabili, su questioni non proprio minori quali la proprietà privata, la concentrazione del potere, la natura intimamente religiosa del movimento comunista, senza curarsi di provare a ricomporre il puzzle. Una volta dice una cosa e una volta l’altra.

Per quanto la stella di Russell si sia un po’ appannata, egli fu uno dei grandi influencer del Novecento, noto ben oltre la cerchia degli specialisti, tradotto in tutto il mondo, ripetutamente intervistato a destra e a manca. La sua Storia della filosofia occidentale gli valse il Nobel per la letteratura, che si sommò a dozzine di altre onorificenze. Attivo in mille battaglie, tutte o quasi nobilissime, da quella per la legalizzazione della sodomia al contrasto alla proliferazione nucleare, Russell resta, anche per chi non lo abbia mai letto, una figura esemplare proprio per l’impegno civile. Ma che succede, all’oleografia di Lord Russell, se “non fu uno spirito unitario e i suoi pensieri non si continuarono mai con la bella felicità della coerenza”?

Il filosofo inglese, nipote del primo ministro Whig, non aveva paura di contraddirsi: e in una carriera così lunga (il suo primo libro è del 1896, l’Autobiografia esce fra il 1967 e il 1969) è difficile che non capiti. Pecora non si occupa del Russell logico o filosofo analitico, bensì dell’intellettuale pubblico. Nel caso di Russell, non si tratta di una carriera secondaria: già l’anno prima di scrivere i suoi Fondamenti della geometria, a venticinque anni, egli pubblica un saggio sulla socialdemocrazia tedesca:

Nel 1895, un giovane che ancora non aveva pubblicato nulla e che diceva di vestire i panni del «liberale ortodosso» (…) volle sperimentare sul vivo le ragioni della forza e i motivi della debolezza del più grande partito socialista del tempo. Ed eccolo allora partirsene per la Germania e lì dialogare con i militanti, interrogare i dirigenti, compulsare i documenti, osservare i movimenti e altro (…) Russell ritornava dal suo viaggio carico di pensiero che poco si ingranavano con il sistema marxiano, che addirittura ne sbalestravano l’equilibratura, e che tuttavia, con quella calma perfetta di esposizione di chi è davvero padrone del suo argomento, non si fece scrupolo di parteciparli con franchezza a un pubblico come i fabiani inglesi, ancora impastati di marxismo

Venticinque anni dopo, Russell esce con un pamphlet sulla Pratica e teoria del bolscevismo, che sin dalle primissime righe non le manda a dire:

La Rivoluzione russa è uno dei grandi eventi eroici della storia mondiale. E’ naturale paragonarla alla Rivoluzione francese ma si tratta in realtà di qualcosa di ancora più importante. Essa fa assai di più per cambiare la vita quotidiana e la struttura della società; essa fa assai di più per cambiare le credenze degli uomini (….) Il bolscevismo combina le caratteristiche della Rivoluzione francese con quelle del sorgere dell’Islam; e il risultato è qualcosa di radicalmente nuovo, che può essere compreso solo con un paziente e appassionato sforzo di immaginazione. (…) Io credo che il socialismo sia necessario al mondo e credo che l’eroismo della Russia abbia infiammato le speranze degli uomini in un modo che era necessario per la realizzazione del socialismo nel futuro. (…) Ma il metodo attraverso il quale Mosca mira a costruire il socialismo è un metodo pionieristico, rozzo e pericoloso, troppo eroico per considerare i costi dell’opposizione che suscita. Io non credo che con un tale metodo sia possibile istituire una forma stabile o desiderabile di socialismo.

Sono parole scritte dopo un viaggio nell’Unione sovietica dove “molte cose contribuirono a disanimarlo, ma una in particolare gli ruppe l’inganno e lo precipitò nella disillusione. E fu l'incontro con Trotsky e Lenin”. Dall’incontro con l’uno e con l’altro, Russell dedusse che

I comunisti non sono diversi dai soldati puritani (…) Entrambi hanno cercato di costringere i loro paesi a vivere ad un livello di moralità e di sacrificio più elevato di quello ritenuto tollerabile dalla gente. Nella Russia attuale, come nell’Inghilterra puritana, la vita è, per molti versi, contraria all’istinto. (…) Se alla fine i bolscevichi cadranno la ragione sarà identica a quella che portò alla caduta dei puritani: perché si arriva a un punto in cui gli uomini avvertono che i divertimenti e gli agi valgono più di tutti gli altri beni messi insieme.

Commenta Pecora: “Correva l’anno 1920, quale rabdomantico intuito!” Il filosofo inglese aveva individuato “la fede assoluta, la certezza fanatica di possedere il vero, la chiusura catafratta nelle proprie indiscutibili convinzioni” quale “fonte sorgiva della dittatura rossa”.

Pecora presenta uno splendido campionario di scritti scettici di Russell sul socialismo realizzato e realizzabile, poi ci fa leggere pagine molto diverse, che tradiscono una “duplicità promiscua di idee”. Una delle questioni cruciali è quella del grado di benessere effettivamente raggiunto dai lavoratori, dopo la Rivoluzione industriale: da una parte Russell continua a citare come fossero lavori di storia economica alcune pagine dickensiane sulla miseria dell’Inghilterra vittoriana, dall’altra si accorge che nella seconda metà dell’Ottocento il reddito disponibile dei lavoratori è andato aumentando e dunque “la teoria per cui l’operaio, finché continua la produzione capitalistica, deve essere tenuto a salari di fame, è assolutamente falsa”, come è dimostrabile empiricamente guardando al’andamento dei salari. Pertanto, l’afflato rivoluzionario del movimento operaio è destinato a spegnersi, e gli operai stessi diventano cointeressati “al mantenimento del sistema capitalistico, se appartengono a una piccola società che ha investito in fondi”. Altrove, Russell sostiene che tutto quanto c’è di ingiusto nel capitalismo non potrà venir meno, finché non si sarà superata la proprietà privata. Attacca la concorrenza come “l’anacronismo che conduce fatalmente a tutti i mali del mondo moderno” e presenta il “correr dietro alle comodità materiali" come quanto di più disumanizzante. In altre pagine ancora nota come “nulla eleva il livello morale di una comunità quanto un aumento di ricchezza, e nulla lo abbassa quanto una sua diminuzione”. A un certo punto, in un saggio intitolato Elogio dell’ozio e che si direbbe imparentato con le Prospettive economiche per i nostri nipoti di Keynes, vagheggia una società socialista nella quale “nessun individuo dipenderà economicamente da un altro ma tutti dipenderanno dallo Stato”. In un suo lavoro, di pochi anni primaRussell aveva messo in guardia contro “le finalità dello Stato” che “sono soprattutto malvagie” tant’è che “deve senz’altro essere considerato meritorio tutto ciò che rende più ardua per lo Stato la possibilità di incrementare le sue entrate”. Senza le quali, però, è arduo mantenere una società intera.

Pecora ha cura di sottolineare come tali cambiamenti di posizione non disegnino un’evoluzione, in un senso o nell’altro, del pensiero di Russell e non siano nemmeno ascrivibili a una chiara impressione lasciatagli da particolari eventi. Questo libro è troppo ben argomentato per essere liquidato come una ricerca di citazioni “di fiore in fiore”, che di volta in volta si prestano per suffragare gli intenti polemici dell’autore. Da un feroce critico dell’induttivismo di tacchini e altri bipedi, suggerisce Pecora, ci si aspetterebbe un po’ più di coerenza e soprattutto una lettura della società libera più vicina alla sua comprensione delle dinamiche della scienza. Che è ciò che ha consentito a un Karl Popper o a un Michael Polanyi di essere formidabili difensori della società aperta e anche, almeno in parte, dell’economia di mercato. Russell invece non mette insieme le due cose, non unisce i puntini, anzi sovente azzarda proposte politiche che se applicate al mondo della ricerca lo desertificherebbero. Pecora suggerisce spiegazioni diverse, per questo fitto coesistere di una posizione politica e del suo contrario nel giardino delle idee russelliane. Forse “la vena scettica gli consumava tutte le posizioni che di volta in volta gli pareva di avere assicurate al suo pensiero, come se le logorasse dall’interno per effetto di un acido corrosivo”. O, al contrario, forse era “appassionatamente scettico perché avrebbe voluto essere un credente appassionato”. Nella seconda metà del volume, Pecora mostra come lo scettico Russell lo fosse, quando parlava di politica, assai meno di quanto dichiarasse; come le sue posizioni cercassero di volta in volta un “fondamento” oggettivo su cui appoggiarsi; come, insomma, egli distinguesse benissimo gli ideali soggettivamente desiderabili e i tentativi di fornirne una giustificazione oggettiva quando si discuteva del pensiero altrui, ma evitasse di sottoporre al medesimo vaglio critico il proprio. Il che capita a tutti, per cui è difficile non provare un po’ di simpatia per Russell.

Pur sapendo di Russell, a differenza di Pecora, poco o nulla, mi permetto di accennare a un’altra possibilità. Per un uomo come Bertrand Russell, la carriera di intellettuale pubblico è stata una sorta di “dovere civico” cui ottemperare, per tradizione familiare. È probabile vi impegnasse le proprie capacità analitiche in grado inferiore, di quanto faceva nell’attività filosofica propriamente intesa. E proprio perché la politica era cosa di famiglia, quando se ne occupava non era mosso in primis dalle ossessioni che scandiscono la vita di uno studioso bensì da un certo istinto politico: che lo conduceva a selezionare temi e pubblici, nella speranza di ottenere un risultato. L’incoerenza, se pensiamo al Russell politico come un attivista e non come un pensatore, può essere quasi una virtù.

Forse non si sbaglia se si trova, nel libro di Pecora, anche qualche spunto polemico sulla sinistra del giorno d’oggi. L’autore infatti appartiene a una tradizione, quella di Luciano Pellicani, che - semplifico sperando di non fargli torto - ritiene che la socialdemocrazia rappresenti una grande conquista ma considera pure la proprietà privata un’imprescindibile garanzia della libertà individuale. Si tratta di un approccio minoritario nella storia della sinistra italiana, e ancor più nel 2025, quando pare possibile essere “liberali” e “socialisti” nel senso di essere genericamente a favore delle libertà individuali (soprattutto quelle che coincidono con la sfera della libera espressione del sé, dunque i diritti della comunità LGBT) ma nello stesso tempo convinti che sia possibile, se non necessario, ricorrere a forme di pianificazione centralizzata in economia. È, questo, un orientamento non poi lontanissimo dalle AOC e dagli Zohran Mamdani, cui in Italia non mancano imitatori.

Nelle ultime pagine, Pecora si occupa della libertà d’opinione, così necessaria al progresso e alla scienza. “Nell’arruffato universo della politica, c’è un modo infallibile per riconoscere subito un liberale: chiedergli cosa ne pensa del dissenso. (…) Se il dissenso gli procura come una stretta di angoscia, se lo impaura evocandogli chi sa quale catastrofica rovina del mondo, allora stiamo pur certi: quello non è, né sarà mai un liberale”. Per simmetria con il progresso scientifico, Russell sa che al progresso sociale è necessario il lievito dei ribelli e dei “disadattati”, nel senso di coloro che non si sentono a loro agio con le certezze costituite. Ma non si avvede che un regime di economia pianificata non può ammettere il dissenso: non lo ammette in pratica, e non lo consente nemmeno in teoria. Persino Russell, per Pecora, finisce per “rincorrere una oggettività in nome della quale anche i più miti finiscono per parlare con aria da giudizio universale”. La lezione di questo libro è che di Russell “politico” non ce n’era uno solo ma almeno due e dunque l’altro, quello che “non tortura la natura umana per estorcerle il segreto dell’oggettività e si limita solo a registrare ciò che vede: uomini che provano, falliscono e riprovano per fallire di nuovo”, e a cui si deve la splendida risposta che “lui soltanto poteva dare a chi gli chiedeva se fosse disposto a morire per le proprie idee.

Fu un attimo, un attimo solo. Ma tanto bastò perché l’angelo dello scetticismo gli prestasse le ali e lo facesse volare nei cieli di quelle sentenze che non si dimenticano più. «Morire per le mie idee? E perché mai - domandò Russell con un lampo di malizia negli occhi -. Dopotutto, potrebbero essere sbagliate”.

Gaetano Pecora, Bertrand Russell. Tra liberalismo e socialismo, Roma, Donzelli, 2024, pp. 256

Una prima versione di questa recensione è apparsa anche su albertomingardi.substack.com

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