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Onere della prova in capo al dipendente che lamenta demansionamento e mobbing
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Onere della prova in capo al dipendente che lamenta demansionamento e mobbing

Tribunale di Roma Sez. Lavoro G.I. Dott.ssa Crisanti sentenza n. 4619 del 17 aprile 2024.

Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale

La recentissima pronuncia in commento affronta il caso di una dipendente di una struttura sanitaria romana, la quale, assumendo di essere stata demansionata da Responsabile del Settore Privati/Assicurati, Marketing e CUP (Pos. Ec. D4) a mera impiegata d’ordine (Cat. B), assegnata all’accettazione o a servizi similari, e di aver subito condotte mobbizzanti per tre anni, il tutto dopo l’insediamento del nuovo Amministratore Delegato, adiva il Tribunale per essere riammessa nella precedente posizione, con accertamento di mobbing e/o straining e condanna della società a risarcimenti vari, quantificabili in € 285.653,38.

Si costituiva in giudizio la società, la quale respingeva tutte le domande avanzate, rilevando e provando documentalmente che, in seguito ad una totale riorganizzazione di tutti i servizi ed assunzione delle funzioni di coordinamento da parte dell’Amministratore, la ricorrente era stata assegnata, con funzioni di impiegata di concetto (e non d’ordine), e quindi in Cat. C e non B, presso diversi servizi, avendo la stessa sempre un certo margine di autonomia e mantenendo comunque inquadramento e retribuzione propri della precedente Pos. D4.

Espletata la prova testimoniale, il Tribunale di Roma, con una dettagliata e convincente pronuncia, ha ritenuto tutte le domande spiegate dalla dipendente infondate.

Innanzitutto il Giudice di merito ha chiarito che la vigente formulazione dell'art. 2103 Cod. Civ., introdotta dall'art. 3 del d.lgs. 81/2015 “contempla .. una specifica ipotesi in cui il datore di lavoro ha il potere di assegnare al lavoratore una mansione inferiore: il secondo comma del rinnovato art. 2103 c.c. stabilisce infatti che, allorché si verifichi una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso lavoratore può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale (in altre parole, l’impiegato dovrà pur sempre svolgere mansioni impiegatizie, non potendogli essere affidate mansioni operaie).[…] Il lavoratore legittimamente dequalificato ha inoltre diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo di cui gode al momento del mutamento, fatta eccezione per quegli elementi della retribuzione collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa”.

Ebbene, dalla lettura della norma si evince come il datore di lavoro, affinché sia legittimato ad agire ai sensi del comma 2 dell’art. 2103 c.c. deve provare la sussistenza di tre condizioni, ovverosia: la modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, l’inquadramento immediatamente inferiore e il rispetto della categoria legale di appartenenza.

Orbene, alla stregua di tale principio, il Tribunale ha verificato (e confermato) la sussistenza della modifica degli assetti organizzativi della società che aveva determinato l’assegnazione delle nuove mansioni alla ricorrente con i provvedimenti in giudizio contestati e l’esistenza di un nesso di causalità fra tale scelta e il demansionamento della lavoratrice. Indi tramite la documentazione prodotta e l’espletata prova orale il Giudice perveniva alla conclusione che “non trova riscontro quanto dedotto in ricorso non essendoci stata alcuna violazione dell’art. 2103 c.c., non avendo la ricorrente mai svolto attività riconducibili al livello B del Ccnl ma, in ossequio a quanto comunicato, mansioni tipiche del livello C (impiegata di concetto) pur mantenendo la retribuzione e il suo livello (D4)”.

A parere quindi del Tribunale la struttura “ha correttamente applicato il disposto di cui al novellato art. 2103 c.c.” e ciò in conformità a quanto anche statuito dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha espressamente affermato che “specialmente nel momento in cui esigenze organizzative e produttive inducano mutamenti soggettivi nella titolarità del rapporto di lavoro, con incorporazioni o fusioni societarie, oppure con cessioni d’azienda o di singoli rami, è frequente che nelle categorie e qualifiche più alte, nelle quali l’attribuzione delle mansioni più facilmente si basa sull’intuitus personae, si possono avere diminuzioni di compiti e di responsabilità non gratificanti ma neppure contrastabili in sede giudiziaria, onde non frustrare operazioni economiche, legittimamente perseguite nell’esercizio del potere di gestire l’impresa e, se occorra, di risanarla in tutto o in parte” (Cass. Civ. sent. n.23945 del 24 novembre 2015)”.

Quanto poi al presunto mobbing e/o straining e a tutte le domande di risarcimento danni, il Giudicante ha ritenuto il ricorso carente di specifiche allegazioni, non essendo sufficiente – come si legge in sentenza - prospettare l’esistenza della dequalificazione e dichiarare genericamente il risarcimento del danno, “non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cass. sez. un. 3 febbraio 1998 n. 1099)”.

Alla stregua di quanto sopra, il Tribunale rigettava la domanda della dipendente con condanna della stessa alle spese di lite.

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