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Il ruolo del Giudice nella valutazione della “giusta retribuzione”
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Il ruolo del Giudice nella valutazione della “giusta retribuzione”

Cass. Sez. Lav. n. 27711 del 2 ottobre 2023 – Cass. Sez. Lav. 28230 del 10 ottobre 2023 – Tribunale di Bari Sez. Lavoro n. 2710.

Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale

In un contesto politico in cui la questione del “salario minimo” è quanto mai dibattuta, anche la magistratura si è espressa, sia con pronunce di legittimità che di merito, rivendicando il primato della valutazione giudiziale nella determinazione dell’importo del salario minimo, inteso come livello retributivo conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza fissati dall’art. 36 della Costituzione.

In particolare, la Cassazione è tornata su tale tema, affrontandolo tuttavia in maniera del tutto nuova proprio alla luce dell’attuale congiuntura economica e del dibattito scaturito dall’approvazione della Direttiva UE n. 2022/2041 relativa al salario minimo adeguato, volta a migliorare l’equità del mercato del lavoro dell’Unione, a prevenire e ridurre le disuguaglianze retributive e sociali e a promuovere il progresso economico e sociale.

Le due pronunce di legittimità in oggetto, che affrontano casi concreti diversi, convergono tuttavia entrambe nel ritenere che in alcuni casi – e in alcuni settori – si renderebbe necessaria la verifica giudiziale nonostante la presenza della contrattazione collettiva per individuare un minimo invalicabile in attuazione dei principi sanciti dalla norma costituzionale.   

Gli Ermellini, nelle su indicate sentenze, affermano sostanzialmente che il riferimento al salario minimo previsto dalla contrattazione collettiva integra solo una presunzione relativa, suscettibile pertanto di accertamento contrario. Il che può determinare, come di fatto avvenuto nei casi oggetto di analisi da parte della Cassazione in commento, che l’inquadramento del lavoratore (e la conseguente determinazione del salario minimo di riferimento) avvenga sulla base di un contratto collettivo – pur dotato dei criteri di rappresentatività che ne legittimano l’applicazione – che tuttavia non soddisfa i criteri stabiliti dall’art. 36 Cost.. E tale violazione risulta denunciabile anche se la retribuzione è comunque conforme a quella stabilita dal contratto collettivo sulla base di quell’analisi di sufficienza e proporzionalità già fatta dalle parti sindacali.

Naturalmente, ove il giudice non ritenga di adottare come parametro i minimi salariali stabiliti dalla contrattazione collettiva, può discostarsene, ma deve assolutamente fornire specifica indicazione delle ragioni che sostengono tale scelta, utilizzando anche parametri differenti da quelli contrattuali quali ad esempio, la localizzazione dell’impresa, la soglia di povertà calcolata dall’ISTAT, l’importo della NASPI e della CIG, la soglia di reddito per l’accesso ad alcune prestazioni (con tutte le criticità che tale scelta comporta considerando che si tratta in molti casi di prestazioni che hanno una finalità diversa rispetto al trattamento retributivo).

Dello stesso tenore una recentissima pronuncia della Sezione Lavoro del Tribunale di Bari (la n.  2720 del 13 ottobre 2023) in cui è stato affrontato il caso di un lavoratore il quale - deducendo di percepire una retribuzione oraria pari ad € 5,37 e, dunque, non rispettosa dei parametri di cui all’art. 36 Cost. - ricorreva giudizialmente al fine di chiedere la condanna della società datrice alle differenze derivanti dall’applicazione del CCNL di un settore similare.

Anche in tale caso, il Tribunale ha affermato che la proporzionalità e la sufficienza della retribuzione a cui fa riferimento l’art. 36 Cost. sono concetti autonomi e ben distinti dalla volontà delle parti sociali che si esprime nella contrattazione collettiva, non potendo escludersi a priori che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di ogni crisma di rappresentatività, possa risultare in concreto lesivo del principio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro di cui deve costituire il corrispettivo e/o di sufficienza ad assicurare al dipendente ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Per la sentenza, quindi, spetta al giudice operare detto controllo e - in caso di riscontrata violazione dei precetti costituzionali - determinare il giusto salario minimo, servendosi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini e per mansioni analoghe.

Orbene, tali pronunce, che in un certo senso contrastano proprio con la citata Direttiva UE, la quale – viceversa - sottolinea l’importanza del ruolo della contrattazione collettiva, creano un clima di forte incertezza applicativa, anche in ragione dell’elasticità dei parametri che vengono proposti dalla giurisprudenza per valutare sufficienza e proporzionalità della retribuzione, rischiando in siffatta maniera di aumentare in maniera esponenziale i contenziosi.

Si auspica quindi in un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale.

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